di Andrea Camilleri

Avevo sì e no cinco anni quanno una matina, sul tardo, mè matre niscì dalla cucina e venne da mia che stavo a taliare il ”Corriere dei piccoli” e a circare di leggiri le storie di sor Pampurio o del soldato Marmittone.
“Vai dal napoletano e accattami cento grammi di “cascavaddro” che quanno fici la spisa me lo scordai”.
All’epoca, tutti i negozianti di generi alimentari del mio paisi venivano chiamati “i napoletani” pirchì parlavano tutti con l’accento delle parti di Napoli, ma in realtà erano o salernitani o amalfitani. E la parola “etto” ancora non si usava, forse non era manco conosciuta. Arrivò più tardi, quanno io ero già grande, insieme a parole come democrazia, repubblica, voto e all’albero di Natale al posto del presepio.
Alla richiesta di mè matre fui subito tentato d’attrovare una scusa per dirle di no. Mai avevo voluto mangiarlo il “cascavaddro“, mi veniva da vommitare al solo pensiero che tagliavano un pezzo di cavaddro, macari ancora vivo, col sangue, la pelle, il pilo e tutto e ne facivano, vai a sapiri come, un pezzo di cacio. Nella mè testa di picciliddro la cosa mi pareva una specie di sacrilegio. Mè patre cercava di convincermi:
“Ma è un cacio fatto come gli altri!”
Non era vero, pinsavo. Io lo sapevo come si faciva il cacio dal latte di crapa o di vacca, ma il latte da un cavaddro non l’avevo mai visto nesciri.
Ad ogni modo, siccome era difficile assà disobbedire a un ordine di mè matre, andai di malavoglia dal napoletano.
Quanno ebbi tra le mano il pezzo incartato, in una vaneddra solitaria dalla quale dovevo per forza passare per tornare a la casa, mi fermai, lo scartai e me lo portai al naso. Sciaurava di cacio, e di cacio bono, non c’era nenti che mi ricordava una vestia come il cavaddro. Allora finalmente mi decisi al gran passo. Tirai fora la lingua e lo liccai. La lingua mi pizzicò tanticchia, ma il sapore mi piacque. Detti, per avere conferma, una secunna liccata e doppo lo rincartai. Mè matre lo portò in tavola e, appresso al secondo, attaccò a mangiarselo con mè patre.
“E a mia nenti?” – spiai.
E questa fu la mia iniziazione al “caciocavallo“. E mi passò ogni scrupolo: se per fare un cacio accussì bono dovevano ammazzare un cavaddro, pazienza. Ricordo che una volta, io già andavo alla seconda elementare, mè patre ne portò una forma intera da Ragusa. Allora eravamo andati a passare qualche mesata nella casa di campagna e io stavo sempre fora a jocare terre terre o, quanno scurava, nel baglio dove c’erano due granni panchine di pietra. Un jorno, che la forma di cascavaddro era arridotta alla mità, decisi di fabbricare un piccolo monumento al cavaddro in quanto fornitore della materia prima per fare il cascavaddro. Ne tagliai un pezzo, l’arridussi a rettangoli, quadrati, triangoli e, coll’aiuto di alcune canne di ristuccia feci un cavallo che era tanticchia picassiano. La sera, a vedere la forma di “cascavaddro” tutta scavata, mè patre arraggiò.
“Che hai fatto?”
“Ci ho fatto un monumento al cavaddro”.
“Fammelo vidiri”.
“L’ho lassato fora, supra a una panchina”.
L’indomani matina, quanno scinnii nel baglio, il monumento non c’era più. Supra la panchina erano rimasti solo le canne di ristuccia. Dispirato, mi misi a chiangiri e mè matre currì subito.
“Se lo saranno mangiato i surci” – disse.
Ma io mi feci pirsuaso che i topi non ci trasivano nenti, sicuramente era stato mè patre a mangiarselo prima di andare in paìsi.
Che dire ancora? Che quanno nel 1949 mi sono trasferito a Roma ho capito che il mio amore per il caciocavallo ne avrebbe patito assà. E infatti, trasuto in un elegante negozio e domandato un etto (stavolta la parola la usavo macari io) di caciocavallo, mi vitti rifilare una cosa che del “cascavaddro” non era manco cugina di quinto grado. Non ebbi fortuna migliore in altri negozi. Risolvetti che quanno non ne potevo più dal desiderio me ne facevo spedire tanticchia dalla Sicilia. E così ho continuato, e continuo, a fare.
Ah, volevo dire che solo a settant’anni sonati seppi che il nome di “caciocavallo” derivava dal fatto che le forme di cacio vengono messe a cavallo di un bastone per la stagionatura. Non so perché, ne restai tanticchia deluso.

(Tratto dalla pubblicazione IL RAGUSANO DOP di Antonio Casa e Carmelo Chiaramonte, Ed. Coop. Sociale “Alberto Portogallo”, Modica, 2006)